LightBlue, un estratto



Prima dell’ultima svolta vedo le luci della pista e resto sospeso tra uno zero assoluto e le solite fiacche statistiche sugli incidenti aerei. Ruotiamo di 90° per allinearci. Il sibilo dei reattori sale, diventa un rombo cupo e terribile. L’aereo fa qualche metro, molla i freni e comincia la folle, rumorosa, interminabile rincorsa (sobbalzi, lievi sbandate, vibrazioni) nel buio incombente di mascelle serrate e battiti accelerati. Tira su il muso, il vassoietto al mio fianco si apre di colpo, la ragazza sobbalza aggrappandosi al poggiabraccio.
M’allungo verso di lei, sorridendo:
- Forse non era il momento migliore.
L’ultimo colpo alla coda e ci stacchiamo da terra, lentamente (il 747 mugola, spinge al massimo, si piega a sinistra, pare non farcela). Una parte di me sta registrando il più piccolo rumore, cambio d’inclinazione, correzione d’assetto. Mi sento separato, agilmente schizofrenico. Tranquillo, tutto sommato.
La ragazza abbozza un sorriso impacciato, richiude il vassoio e conferma che si, in effetti, s’è presa un certo spavento. Provo a distrarla:
- Tornando a casa?
E’ bionda, alta, asciutta, il volto spigoloso coperto di lentiggini (l’avevo già notata al checkin e proprio non riuscivo ad affibbiarle un’età… ventotto? trentotto?... Mentre nessun dubbio sulla nazionalità… olandese, svedese, comunque nord europea).
- Più o meno. Mi fermo un paio di settimane a Ginevra per lavoro, poi, si, finalmente torno a casa, a Stoccolma.
Le luci si riaccendono, i giri dei reattori diminuiscono, la voce monotona di una hostess tranquillizza tutti: sul volo BA182 New York - Londra sono le 22:50, tra poco serviranno la cena e davvero non so dove sto andando.
- E tu? – Mi chiede.
- Io mi sono preso una pausa. Qualche mese a New York, ho fatto un corso d’inglese avanzato. E mi sono rilassato, ho camminato, letto… All’inizio ero in un monolocale, carino, si, con tutto quanto, wifi, lavasciuga, nell’East Village, lo conosci? Poi mi sono spostato, verso Gramercy Park, dove ho convissuto con una ragazza…  - Pausa: - E tu? A New York per lavoro… vacanza?
Qualcosa si sta agitando dietro quelle iridi azzurro ghiaccio, le occhiaie tradiscono una certa stanchezza.
Oltre lei, oltre l’anziano inglese che sfoglia la rivista di bordo, oltre il corridoio, il profilo immobile come raggelato di una ragazza china su un libro cui è aggrappata quasi fosse il cerchio di un pozzo (dita lunghe, affusolate, anello argentato con pesante motivo floreale):
- Mi sono fermata solo qualche giorno, dal mio ragazzo… almeno spero lo sia ancora.
Incassa il mento e strabuzza gli occhi in evidente segno d’incredulità:
- Litigato?
- No, no, anzi…
Vive in cattività, si chiama Anna, 30 anni, manager Ikea e al centro della gabbia, nel mandala dell’altare, ha piazzato tal Jona.
- Ho il cuore a pezzi, sai? – Le dico improvvisamente. (Sono già alla quarta bottiglietta di Sauvignon, mi sento triste, perduto, come se tra una scena e l’altra mancasse il collante e i passaggi fossero semplici, sbrigativi cambi di scena.)
- Ti capisco.
- Nessuno ce l’ha con me, nessuno mi tradisce o mi respinge… Fondamentalmente mi sento amato ma… E’ che non so come ci sono finito… che ci faccio, qui.
Si volta dalla mia parte:
- Tu che sei un uomo, dimmi: come vivete, voi uomini,  un breve distacco, una pausa di qualche mese che la vostra donna decide di prendersi, così, senza un motivo preciso, forse solo per farsi notare, come per dire: “ hey, sono qua! Facciamo qualcosa assieme!”
- Sei fortunata.
- Cosa?
- Dico che sei fortunata. Stacci dentro, goditela più che puoi.
- Si, ma ci sto male… a volte neanche gli mando sms per la paura… il panico che mi prende (tremo, ci credi?) se Jona non mi risponde… se ritarda a rispondere.
Anna non mi piace, definitivamente. Non è lei a mancarmi, non è il mio tipo, tutto qui.
Osservo, sospirando:
- Almeno è qualcosa.
Vorrei prenderla a calci, prendere a calci lei e il vecchio oltre lei, vorrei non avere impedimenti tra me e la ragazza dalle lunghe dita che adesso, testa china, sta osservando l’ipod nero di fianco al libro.
- Nove su dieci sono abbagli, lo sai vero? – Dico con una punta di sadismo sbirciando oltre i suoi occhi sporgenti da anfibio, oltre la testona incanutita e sbilenca del vecchio sprofondato nel sonno.
- Io e Jona ci siamo incontrati a diciassette anni…
- …abbagli, effetti ottici. Ma no, certamente non è il caso tuo.
Osservo il pollice sfiorare il display dell’ipod, seguire lo spigolo del libro di Joyce Carol Oates, fermarsi. E’ inquieta, lo sento. La conosco. Ci siamo incontrati altre volte: Milano, Tokio, oceano Atlantico, ma non può ricordare. È inquieta, oggi. Qualche minuto fa i nostri sguardi si sono incrociati: sorpresa (luce che s’accende nelle pupille), fronte corrugata per mettermi a fuoco, mesto ritorno al suo libro. Il mio unico problema reale: ristabilire il contatto con lei. Il libro, giusto, il libro che sta leggendo. Si, ho letto qualcosa della Carol Oates qualche anno fa, ma, sai, una scrittura un po’ troppo ricercata, così al limite della perfezione da diventare gelida… Storie Americane, si ecco, il titolo.
Dopo circa un’ora di conversazione Anna si apre in un sorriso idiota per chiedermi che faccio:
- In che senso.
- In generale, che fai nella vita?
Cago, le vorrei rispondere, cago e cerco pertugi in cui nascondermi (dove mi trovo?):
- Faccio l’avvocato.
In effetti, detta così (barba incolta, maglioncino marrone a strisce arancioni, jeans) è difficile crederci.
- Ah. – Commenta come inceppata.
Dissimulando incredulità, attacca col solito scherzoso elenco di luoghi comuni su sciacalli e avvoltoi e amici avvocati che fanno non si sa bene cosa per non si sa bene quale motivo.
Che strazio. Non mi va di fermarla ogni volta per dirle che no, non è proprio così, che io, no, ecco, non faccio proprio… cioè, si, per un po’, ma poi… ecco, Anna, io sono morto, buh!
- …e ti occupi di civile, penale…?
- Dati personali. Mi occupo di proteggere le informazioni che riguardano la tua vita.
Cioè, non proprio. Per la verità me ne sbatto ma, messa così, la cosa mi rinsalda un minimo, rimettendomi nella conversazione.
Rincaro la dose:
- Come tu ben saprai, tutta la nostra economia si regge sui fatti tuoi… a che ora ti alzi, cosa sogni, come versi il latte nei cereali, quante volte e respiri e quante ti gratti il culo, e qualcuno ci fa i soldi, sulle tue abitudini. - Cazzo, e se non lo sai tu che arredi gabbie…
La volontà rammollita da alta quota, il vino diluito nelle vene, la costante familiare presenza della morte per via che siamo qua, chiusi dentro una palla di cannone sparata a dodicimila metri nella notte…
A lato di una hostess cordialmente piegata la vedo (Edith, ecco, Edith si chiama!) accendersi in un sorriso e raccogliere il bicchiere di succo d’arancia dal vassoio. Ringrazia (quei suoi occhi lucidi, il viso pallido, sottile, il naso irregolare e le labbra carnose…)
- Si chiamano indagini di mercato, no?- Chiede Anna.
Ha cambiato tono, adesso sa di avere a che fare con un professionista e può rilassarsi. Mi sto rompendo:
- Si chiama voyeurismo, furto… La legge ha pochi anni. Almeno da questo punto di vista, l’Unione Europea è all’avanguardia: adesso, voi dell’Ikea, non potete più fare quello che vi pare con questionari o sondaggi d’opinione, vi tocca prima bussare e chiedere il permesso.
Mi monta una certa indignazione verso di lei e la rapacità del capitalismo tutto: i labirinti dei centri Ikea, quell’invito spudorato ad ingozzarti, intasare il tuo buco di casa di ogni stronzata, stordirti di inutilità prima del tracollo.
Bene: Anna ama Jona, Anna ha edificato il proprio piccolo bunker a prova di bomba, acari, dubbi.
- Beh, noi di Ikea da sempre abbiamo un occhio sui nostri clienti. Oltre alla massima cura sulla qualità puntiamo moltissimo sul rispetto dei loro gusti, delle loro esigenze, abitudini…
Parla a caso, in automatico, tipo carillon, e persino il mio più indolente immaginario si rifiuta di aprirle la camicetta per prenderle in bocca una tetta: bel mistero, l’erotismo.
Lascio cadere la conversazione (le parole si smorzano, come cerchi nell’acqua). Capisce, si mette le cuffie e comincia a pigiare i tasti del telecomando.
Desidero alzarmi, levarmi di lì, ma c’è il vecchio da svegliare, laggiù, si deve scansare.
Finisco l’ennesimo Sauvignon (un carro di buoi, stipati come animali), slaccio la cintura, punto le mani sui braccioli, Anna capisce (e ne è lieta) che devo andare al bagno e restiamo un attimo a fissare il naso gonfio, paonazzo dell’uomo al posto corridoio che se la dorme bocca aperta e mani incrociate sulla pancia. Porcaputtana, non posso passare, mi dovrei piegare, schiacciare come una sardina e, comunque, piantargli l’uccello in faccia.
Al diavolo:
- Excuse me… excuse me!
Apre allarmato gli occhi, piccoli, gonfi, iniettati di sangue e, piuttosto agitato si leva in piedi per lasciarmi passare (Edith… segue con la coda dell’occhio).
- Thanks… sorry. – E vaffanculo. Libero, finalmente.
Mi stiro la schiena, dondolo un po’ il collo, inizio a camminare, lento, verso i bagni di coda, malfermo, rarefatto, guardando facce, umanità (addormentata, ravvolta come bozzoli dentro coperte, avvinghiata ad altra umanità, incantata davanti agli schermi, immersa in conversazioni notturne, intime, divertenti, persa nel vuoto.)
Mi chiudo in bagno ed ecco qua, il mio profilo, dentro luce bianca e odore di sapone, pisciando rumorosamente. Mi guardo allo specchio e, al solito, scoppio a ridere scotendo il capo:
- Ma che cazzo ci fai qui?
Pigio il bottone dello scarico e aspetto un paio di secondi prima che un risucchio gelido disperda il mio dna tra le nuvole del cielo artico. Esco. Resto un po’ in piedi vicino al portellone, mi chino a guardare: stelle, la scia in formazione dei reattori, un blue anodino sotto di noi.
Sono stanco. Incredibilmente stanco. O forse no. Sento le membra gonfie, galleggianti, il cervello alla deriva incapace di qualsiasi conclusione sulle cose minime: umore, fame, sete, paura… So solo di non farcela a rimettermi buono sul sedile, chiudere gli occhi e, così, in uno schiocco di dita, ritrovarmi chissà dove con l’alba appuntata all’ala dell’aereo, luci accese, odore di caffè, e tutta la ciurma a sgranchirsi, ammorbare l’aria, riprendere la tessitura…
Torno verso la fila 34, proseguo oltre perché, al ritorno, voglio guardare Edith (bene, il vecchio è tornato a dormire e non mi vede, non balza in piedi per farmi passare. Bene, anche la Svedese s’è appisolata). Arrivo alla tendina che indica la fine dell’economy, mani in tasca mi giro, una decina di passi (il cuore batte, forte) e sono da lei, nuovamente.
Mi fermo, metto la mano sul poggiatesta e, sorridendo:
- Com’è il libro?

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